Diritto civile e commerciale

LA CORTE COSTITUZIONALE RITIENE INFONDATA LA QUESTIONE DI LEGITTIMITA’ IN MERITO ALLE NORME CHE CONSENTONO DI DICHIARARE INSOLVENTE LA COOPERATIVA, SENZA IL PREVIO ACCERTAMENTO DELLE SOGLIE PREVISTE PER LA DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO.

Il Giudizio di legittimità costituzionale, conclusosi con la Sentenza n. 93/2022, ha avuto origine su eccezione del Tribunale di Udine, nell’ambito del procedimento per la dichiarazione di insolvenza di una Cooperativa in Liquidazione coatta amministrativa, promosso su istanza del Commissario liquidatore.
La questione di legittimità aveva ad oggetto l’art. 202, primo comma, R.D. n. 267/1942, nella parte in cui prevede che la sentenza di accertamento dello stato di insolvenza della Cooperativa in Liquidazione coatta amministrativa possa essere emessa anche in assenza dei requisiti soggettivi necessari per la dichiarazione di fallimento.
Ad avviso del Giudice rimettente, tale norma avrebbe violato gli artt. 3 e 45 della Costituzione, in quanto avrebbe comportato di fatto una disparità di trattamento ai danni delle Cooperative, rispetto agli altri soggetti fallibili, e persino lo sviamento del principio della cooperazione tutelato costituzionalmente.
Nel caso di specie, si trattava di una Cooperativa di dimensioni minime in termini patrimoniali e finanziari. Pertanto, come rilevato nell’Ordinanza di rimessione, la stessa Società, qualora fosse stata costituita sotto altra forma, non sarebbe stata soggetta al fallimento in quanto ben al di sotto dei requisiti stabiliti dagli artt. 1, secondo comma, e 15, nono comma, della Legge fallimentare.
Requisiti soggettivi che non sono, invece, richiesti per dichiarare l’insolvenza né antecedentemente né successivamente alla messa in liquidazione coatta, dagli artt. 195 e 202 del R.D. n. 267/1942, nonostante la dichiarazione di insolvenza comporti le medesime conseguenze del fallimento per quanto riguarda le azioni revocatorie e le fattispecie di reato.
Come è noto, l’art. 195, primo comma, della Legge fallimentare prevede che “se un’impresa soggetta a liquidazione coatta amministrativa con esclusione del fallimento si trova in stato di insolvenza, il tribunale del luogo dove l’impresa ha la sede principale, su richiesta di uno o più creditori, ovvero dell’autorità che ha la vigilanza sull’impresa o di questa stessa, dichiara tale stato con sentenza”.
L’art. 202, primo comma, della medesima Legge (oggetto della questione di legittimità) prevede poi che “se l’impresa al tempo in cui è stata ordinata la liquidazione, si trovava in stato d’insolvenza e questa non è stata preventivamente dichiarata a norma dell’art. 195, il tribunale del luogo dove l’impresa ha la sede principale, su ricorso del commissario liquidatore o su istanza del pubblico ministero, accerta tale stato con sentenza in camera di consiglio, anche se la liquidazione è stata disposta per insufficienza di attivo”.
Dall’insolvenza, sia essa dichiarata preventivamente ovvero accertata successivamente rispetto al Provvedimento amministrativo di liquidazione coatta, derivano gli stessi effetti previsti in caso di fallimento sul piano civile e penale, contemplati negli artt. 203 e 237 del R.D. n. 267/1942.
La prima delle succitate norme prevede, infatti, che “accertato giudizialmente lo stato d’insolvenza a norma degli articoli 195 o 202”, è applicabile la disciplina fallimentare degli atti pregiudizievoli ai creditori; l’art. 237 dispone che “l’accertamento giudiziale dello stato di insolvenza a norma degli articoli 195 e 202 è equiparato alla dichiarazione di fallimento” ai fini dell’applicazione della disciplina dei reati fallimentari.   
In ragione di quanto precede, il Giudice rimettente ha esteso la questione di legittimità all’art. 195 della Legge Fallimentare.
Peraltro, con l’entrata in vigore del codice della crisi e dell’insolvenza, la materia è ormai regolata dagli artt. 297, I comma, e 298, II comma, del codice medesimo, che, comunque, non hanno apportato modifiche alla precedente disciplina. Il Giudice a quo ha, quindi, ritenuto che la questione di legittimità dovesse essere estesa anche ai due succitati articoli.
Sul presupposto dell’identità degli effetti civili e penali tra la procedura di insolvenza e quella di fallimento, si sarebbe palesata la disparità di trattamento, in quanto “l’inasprimento delle norme di diritto comune” conseguente all’insolvenza non è preceduto dalla verifica dei requisiti dimensionali, a differenza di quanto avviene necessariamente per la dichiarazione di fallimento.    
Ciò sarebbe stato, ad avviso del rimettente, fortemente penalizzante per le Società soggette a liquidazione coatta (quali, appunto, le Cooperative), le quali, anche se di dimensioni ridotte, possono essere sottoposte all’accertamento giudiziario dello stato di insolvenza, non previsto nei confronti delle imprese lucrative con analoghi requisiti dimensionali. Un’ulteriore prova di tale presunta disparità sarebbe stata rappresentata dalla disciplina in materia di crisi da sovraindebitamento introdotta dalla Legge n. 3/2012, applicabile alle imprese non fallibili, ossia non in possesso degli anzidetti requisiti finanziari-patrimoniali. In caso di insolvenza, infatti, tali soggetti sono sottoposti alla liquidazione del patrimonio, alla quale non conseguono le speciali azioni revocatorie né le fattispecie di reato previste nell’ambito del fallimento.
Ad avviso del Tribunale rimettente, dunque, il diverso trattamento riservato alle Società soggette alla L.C.A. avrebbe violato non solo il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione, ma avrebbe ostacolato anche l’indirizzo generale di favore verso lo sviluppo della cooperazione, sancito dall’art. 45 della Costituzione.
L’Avvocatura generale dello Stato, costituitasi in giudizio nell’interesse della Presidenza del Consiglio, ha chiesto che le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale venissero dichiarate inammissibili o, comunque, infondate.
Nello specifico, l’Avvocatura ha sostenuto che il Giudice a quo si fosse fermato all’interpretazione letterale della norma in questione, senza soffermarsi sulle complessive ragioni che differenziano la procedura di liquidazione coatta da quella fallimentare, più volte rilevate in giurisprudenza.
In particolare, l’anzidetta soglia minima debitoria è stata pacificamente ritenuta impeditiva non all’accertamento dello stato di insolvenza, che può comunque sussistere, ma soltanto alla successiva dichiarazione di fallimento (con le connesse conseguenze sul piano civile e penale), alla quale non si procede al di sotto delle note soglie, esclusivamente per mere ragioni di economia processuale. Ragioni che passano, invece, in secondo piano di fronte al preminente interesse pubblico caratterizzante la procedura di liquidazione coatta.
Inoltre, con specifico riferimento alla presunta violazione dell’art. 45 della Costituzione, ad avviso dell’Avvocatura, la gravità delle conseguenze dell’insolvenza per le Cooperative si inquadrerebbe nell’ambito della più rigorosa tutela dei creditori e della collettività, che caratterizza tale tipologia societaria più di ogni altra, in tutte le sue fasi di vita (prova ne sono l’assoggettamento alla vigilanza amministrativa ed alla liquidazione coatta, nonché i vincoli in materia di destinazione degli utili e di devoluzione del patrimonio).
La tesi dell’Avvocatura è stata condivisa dalla Corte, la quale, con la Sentenza in esame, ha rigettato le questioni di legittimità costituzionale proposte dal Tribunale di Udine, sulla base anche di ulteriori argomentazioni.
L’iter motivazionale seguito dalla Corte parte da un presupposto imprescindibile: la diversità tra le Cooperative (di qualunque tipo esse siano) e gli altri soggetti economici; ed è, appunto, tale originaria diversità che giustifica il differente trattamento giuridico adottato in caso di insolvenza.
Già con la Sentenza n. 408/1989, la Corte aveva rilevato che “la rilevanza costituzionale della cooperazione trova la sua ragion d’essere nella più stretta inerenza che la funzione sociale presenta nell’organizzazione cooperativistica rispetto a quella che la detta funzione riveste nelle altre forme di organizzazione produttiva”.    
Persino l’Unione Europea ha riconosciuto la specificità del modello cooperativistico, disciplinando lo Statuto della società cooperativa europea con il Regolamento del Consiglio n. 1435/2003.
In particolare, la peculiarità delle Cooperative risiede nello scopo mutualistico, sempre presente seppur con gradazioni diverse.
Ed invero, la mutualità sussiste, oltre che nelle Cooperative “pure” di cui all’art. 2512 c.c. (nelle quali è assente lo scopo di lucro), anche nelle Cooperative diverse (caratterizzate dalla mutualità cosiddetta spuria, poiché esercenti attività commerciale nei confronti di terzi non soci), in quanto, come riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità, “il fine mutualistico è conciliabile con il lucro oggettivo, vale a dire con l’economicità della gestione, quale tendenziale proporzionalità tra costi e ricavi, mentre è incompatibile con obiettivi di lucro soggettivo” (Corte di Cassazione n. 6835/2014; n. 25478/2019).     
Tale ultimo assunto, condiviso dalla Corte Costituzionale, conferma, quindi, che anche le Cooperative esercenti attività commerciale (in quanto tali soggette a fallimento ex art. 2545-terdecies c.c.) rimangono pur sempre mutualistiche, seppur “spurie”, e vanno, pertanto, distinte dalle società lucrative, finalizzate al profitto soggettivo.
A riprova di ciò, la Corte costituzionale ha rilevato che anche le Cooperative a mutualità spuria sono soggette alla L.C.A., sia nel caso di insolvenza ai sensi dell’art. 2545-terdecies c.c. sia a seguito dello scioglimento da parte dell’Autorità di vigilanza ai sensi dell’art. 2545 septiesdecies, a causa del mancato perseguimento dello scopo mutualistico, dell’omesso deposito del bilancio per due anni consecutivi o dell’assenza di atti di gestione.
Ne deriva che pure le Cooperative a mutualità spuria conservano la rilevanza pubblicistica propria di tutti i soggetti sottoposti alla liquidazione coatta. Come già sostenuto dalla stessa Corte, infatti, “la liquidazione coatta amministrativa si connota appunto per gli interessi pubblici che tutela e che la differenziano sotto molteplici aspetti dal fallimento. È infatti una procedura relativa a imprese che, pur operando nell’ambito del diritto privato, attengono a particolari settori economici, in relazione ai quali lo Stato assume il compito della difesa del pubblico affidamento, o che sono in rapporto di complementarità teleologico-organizzativa con la pubblica amministrazione (da ultimo, sentenze n. 22 del 2021 e n. 12 del 2020)”.
Un altro tratto distintivo delle Cooperative rispetto a tutte le altre imprese è rappresentato dal sistema di vigilanza amministrativa, che l’art. 1, comma 1, D.Lgs. n. 220/2022 prevede per “tutte le forme di società cooperative”.
La stessa Vigilanza può addirittura accertare l’insolvenza ai fini dell’emissione del Provvedimento di messa in liquidazione coatta, come previsto dall’art. 12, comma 1, lettera e), D.Lgs. n. 220/2022, ad ulteriore riprova del contesto pubblicistico che coinvolge la crisi della Cooperativa, pur se a mutualità spuria.
Non può essere trascurato, inoltre, che le Cooperative godono di varie agevolazioni, tra le quali quelle di natura fiscale, prima fra tutte la detassazione degli utili destinati a riserva indivisibile, concessa anche alle Cooperative spurie, seppure in misura minore rispetto a quelle a mutualità prevalente.
L’agevolazione è giustificata dal fatto che tale tipologia di Cooperativa, pur esercitando attività commerciale anche verso terzi, è comunque tenuta ad eseguire gli accantonamenti imposti dallo Statuto, sottraendo così risorse ai soci per destinarle ai fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione.
Anche sotto tale ultimo profilo, le Cooperative (di qualunque tipologia) si distinguono dalle altre forme di impresa, configurandosi come “enti di creazione di ricchezza intergenerazionale” per via degli anzidetti meccanismi devolutivi e, conseguentemente, “risultano giustificate verifiche più incisive nella fase della crisi di impresa, onde garantire un utilizzo non distorto delle misure di favore, a salvaguardia dell’interesse dei fondi mutualistici, ai quali i residui patrimoniali sono destinati per statuto, appunto in funzione dell’accesso ai regimi agevolativi”.
Tutte le succitate argomentazioni hanno portato la Corte costituzionale a concludere che “come nel corso fisiologico della sua esistenza, così nella fase patologica della crisi, la società cooperativa, quand’anche esercente un’attività commerciale, non è perfettamente assimilabile a una società lucrativa, ma conserva rispetto ad essa profili di specificità, che non possono essere superati in forza di un generico richiamo alla parità di trattamento tra operatori economici. 
[…] L’evocazione del parametro di cui all’art. 3 Cost. risulta quindi impropria, in quanto gli estremi in comparazione sono eterogenei.
[…] La denuncia sollevata dal Tribunale di Udine per violazione dell’art. 3 Cost. tradisce quindi una visione “atomistica” della realtà giuridica della società cooperativa, all’interno della quale è spezzato il nesso tra benefici e controlli”.
Per le medesime ragioni, la Corte ha ritenuto parimenti improprio il raffronto tra l’insolvenza prevista per le Cooperative ed i meccanismi di composizione della crisi e di liquidazione del patrimonio disciplinati dalla Legge n. 3/2012 con riguardo ai soggetti non fallibili. Anche in questo caso, dunque, è errato paragonare “su basi strettamente economico-patrimoniali, l’insolvenza di un’impresa di economia sociale – quale è la società cooperativa – con l’insolvenza di un mero debitore civile”.
La Corte ha dichiarato infondata pure la questione di legittimità sollevata in relazione all’art. 45 della Costituzione, il cui spirito di favore verso il sistema cooperativo sarebbe stato violato, secondo il Giudice a quo, dalle anzidette norme particolarmente restrittive.
Nello specifico, la Corte, anche sulla base di precedenti pronunce, ha rilevato come la norma costituzionale in questione riconosca e promuova il modello mutualistico (“la legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei”), ma al tempo stesso imponga di adottare misure finalizzate ad assicurare la concreta realizzazione di tale modello (“e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità”).
Ne consegue che gli effetti restrittivi derivanti dalla dichiarazione di insolvenza, in campo civile e penale, possono essere coerentemente ricondotti nell’ambito degli “opportuni controlli” imposti proprio dal noto art. 45, come testualmente statuito nella Sentenza: “la tutela rafforzata del ceto creditorio e dell’ordine pubblico economico connessa all’accertamento giudiziario dello stato di insolvenza della società cooperativa può agevolmente ricondursi agli «opportuni controlli» raccomandati dall’art. 45 Cost., in base ad un non irragionevole bilanciamento legislativo tra mezzi di promozione e istanze di vigilanza, con conseguente insussistenza della denunciata violazione”.
Peraltro, la stessa Corte aveva già riconosciuto non solo l’ampia discrezionalità del Legislatore nell’individuazione delle modalità da adottare per l’incremento della cooperazione (Sentenza n. 334/1995; Ordinanze nn. 19/1988 e 371/1987), ma anche la possibilità che tale obiettivo venga perseguito mediante l’imposizione di oneri (Sentenza n. 149/2021), quali possono essere, appunto, le revocatorie ed i reati fallimentari conseguenti alla dichiarazione di insolvenza. Con la pronuncia in esame, quindi, la Corte conferma che il favor nei confronti della cooperazione, tutelato costituzionalmente dall’art. 45, non equivale ad una “sommatoria di prerogative”, dovendo viceversa essere inteso in senso complessivo e coerente con tutti gli interessi coinvolti.