Diritto del lavoro

LE SEZIONI UNITE FANNO CHIAREZZA SULLE AZIONI ESPERIBILI DAL SOCIO LAVORATORE LICENZIATO E CONTESTUALMENTE ESCLUSO DALLA COOPERATIVA

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con la sentenza n. 27436 del 10.10.2017, pubblicata il 20.11.2017, si è pronunciata in merito all’esperibilità del ricorso avverso il licenziamento da parte del socio lavoratore definitivamente escluso dalla Cooperativa.
I contrasti interpretativi sorti in giurisprudenza riguardavano l’ipotesi in cui il socio che fosse stato licenziato e, per le medesime ragioni, escluso dalla Cooperativa (attraverso due distinti atti), si fosse limitato ad impugnare soltanto l’atto di licenziamento, rendendo così definitiva la delibera di esclusione.
Nel caso di specie, l’orientamento della Suprema Corte sembrava essersi consolidato nel ritenere il ricorso avverso il licenziamento inammissibile per carenza di interesse, stante la definitività dell’esclusione ed il conseguente scioglimento ex lege del contratto di lavoro.
L’intervento delle Sezioni Unite, pur confermando l’irrimediabile estinzione del rapporto lavorativo ove l’esclusione sia divenuta definitiva, ha la funzione di chiarire quali siano i margini di proponibilità del ricorso avverso il licenziamento nonché i relativi effetti in favore del socio.
Si tratta di tematica dalle molteplici implicazioni pratiche, avuto riguardo al fatto che, nelle Cooperative di produzione e lavoro, coesistono due distinti rapporti: l’uno associativo (tipico di qualunque Società) e l’altro lavorativo (il quale, a sua volta, può essere di vario tipo).
Ed è proprio dalla relazione esistente tra i due rapporti, con particolare riguardo alla loro fase estintiva,  che le Sezioni Unite ritengono occorra partire al fine di decidere se ammettere o meno l’azione autonoma avverso il licenziamento, non accompagnata dall’impugnazione della contestuale delibera di esclusione: “Sicché, a seconda del peso, maggiore o minore, che si riconosca a ciascuno dei due rapporti, di lavoro e associativo, si giunge a conclusioni diverse in relazione alla giustiziabilità del licenziamento del socio lavoratore che si accompagni alla delibera della cooperativa che lo escluda, qualora questa non sia impugnata”.
La tesi più risalente (Cassazione SS.UU. n. 5813/1989, avallata anche dalla Corte Costituzionale n. 30/1996) non riconosceva nemmeno l’esistenza del rapporto di lavoro tra la Cooperativa ed il socio, in quanto lo considerava incluso nel contratto sociale, come rileva la pronuncia in commento: “Le prestazioni del socio lavoratore, si riteneva, integrano adempimento del contratto di società, per l’esercizio in comune dell’impresa societaria, di modo che non sono riconducibili a due distinti centri di interessi; lo scopo dei soci, i quali partecipano direttamente al rischio d’impresa, si specificava, è comune e trascende la mera collaborazione, proprio perché è connotato dall’associazione”.
Il rapporto di lavoro non aveva, quindi, alcuna autonoma rilevanza, stante l’unicità della causa negoziale del vincolo cooperativo.   Tale impostazione tradizionale, caratterizzata, come detto, dall’egemonia del rapporto sociale, ha gradualmente ceduto spazio di fronte alle esigenze di protezione dei soci lavoratori, considerati contraenti deboli, tanto che la disciplina del lavoro cooperativo è stata sempre più contaminata dalle regole proprie del lavoro subordinato.
Tale equiparazione è stata riconosciuta anche dalla giurisprudenza di legittimità, che ha qualificato il rapporto de quo come pur sempre associativo, ma appartenente ad una “categoria contigua e interdipendente a quella del lavoro subordinato o parasubordinato”.
Il mutato indirizzo ha trovato attuazione normativa nella riforma della cooperazione di lavoro del 2001, laddove è stato espressamente previsto che, nelle Cooperative in questione, al rapporto associativo si aggiunge “un ulteriore e distinto rapporto di lavoro, in forma subordinata o autonoma o in qualsiasi altra forma, ivi compresi rapporti di collaborazione coordinata non occasionale” (art. 1 Legge n. 142/01).
Il principio della pari rilevanza tra i due anzidetti rapporti ha così avuto pieno riconoscimento giuridico, secondo lo schema del collegamento negoziale, come illustrato dalle Sezioni Unite in commento: “La combinazione dei due rapporti, associativo e di lavoro, assume la veste di collegamento necessario, perché è animata dallo scopo pratico unitario dell’operazione complessiva, al perseguimento del quale entrambi sono indirizzati: il legame dei due rapporti innerva per volontà del legislatore la funzione del lavoro cooperativo”.
Tuttavia, a seguito delle modifiche apportate dalla Legge n. 30/2003, la parità tra i due rapporti è venuta meno, in quanto è stato espressamente previsto che il contratto di lavoro è, comunque, vincolato al possesso della qualità di socio, con conseguente cessazione automatica del rapporto lavorativo in presenza del recesso o dell’esclusione (art. 5, comma 2, Legge n. 142/01).
Coerentemente, è stata altresì disposta l’inapplicabilità dell’art. 18 dello Statuto lavoratori (e, quindi, della relativa tutela reale) qualora, insieme al rapporto di lavoro, si estingua anche quello associativo (art. 2 Legge n. 142/2001).
La disciplina di settore si è, pertanto, conformata alla previsione generale di cui all’art. 2533 c.c. (“qualora l’atto costitutivo non preveda diversamente, lo scioglimento del rapporto sociale determina anche la risoluzione dei rapporti mutualistici pendenti”).
Pertanto, in base alla normativa attuale, mentre dall’estinzione del vincolo sociale deriva anche quella del rapporto di lavoro, non vale il principio inverso, come rilevato dalle Sezioni Unite in commento: “Il collegamento, quindi, nella fase estintiva dei rapporti, ha assunto caratteristica unidirezionale. La cessazione del rapporto di lavoro, non soltanto per recesso datoriale, ma anche per dimissioni del socio lavoratore, non implica necessariamente il venir meno di quello associativo.
Ciò perché il rapporto associativo può essere alimentato dal socio mediante la partecipazione alla vita ed alle scelte dell’impresa, al rischio ed ai risultati economici della quale comunque egli partecipa, a norma del 2° comma dell’art. 1 L. n. 142/01.
[…] Sicché il socio, se può non essere lavoratore, qualora perda la qualità di socio non può più essere lavoratore. Lo si legge nel 2° comma dell’art. 5 della I. n. 142/01, il quale esclude che il rapporto di lavoro possa sopravvivere alla cessazione di quello associativo”.
La tesi dell’unidirezionalità del collegamento tra i due rapporti porta a confutare il recente orientamento giurisprudenziale (Cass. n. 1259/2015), secondo cui lo scioglimento automatico del contratto di lavoro non sarebbe configurabile ove la delibera di esclusione, pur definitiva, sia fondata soltanto sull’avvenuto licenziamento (per esempio in ipotesi di licenziamento disciplinare), poi dichiarato illegittimo.
In questo caso, sempre in base a tale impostazione, anche la delibera di esclusione, proprio in quanto basata sull’illegittimo recesso datoriale, sarebbe da ritenersi illegittima (nonostante non fosse stata ritualmente impugnata). Conseguentemente, il socio lavoratore avrebbe avuto diritto alla reintegra ex art. 18 Statuto lavoratori, poiché, non potendosi ritenere estinto il vincolo associativo, non avrebbe operato l’anzidetto divieto di cui all’art. 2 Legge n. 142/2001.
Al riguardo, le Sezioni Unite affermano che la tesi de qua, ove venisse accolta, stravolgerebbe il criterio di collegamento tra i due rapporti voluto dal Legislatore (nella specie, la dipendenza del contratto di lavoro dal vincolo sociale), deviando arbitrariamente l’attenzione su un aspetto irrilevante, quale è quello riguardante la motivazione della delibera di esclusione ormai definitiva: “Quest’impostazione determina il capovolgimento della relazione di dipendenza prefigurata dal legislatore tra l’estinzione del rapporto associativo e quella del rapporto di lavoro, che deriva dal collegamento tra essi.
È la caratteristica morfologica dell’unidirezionalità del collegamento fra i rapporti, difatti, a determinare la dipendenza delle loro vicende estintive, non già l’indagine, necessariamente casistica, sulle ragioni che sono poste a fondamento dell’espulsione del socio lavoratore”
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Chiarito che l’estinzione del rapporto sociale non può più essere messa in discussione una volta che la relativa delibera sia divenuta definitiva, la Suprema Corte tiene, comunque, a precisare che “Il nesso di collegamento tra rapporto associativo e rapporto di lavoro, tuttavia, per quanto unidirezionale, non riesce ad oscurare la rilevanza di quello di lavoro, anche nella fase estintiva.
Basta l’aggettivo “ulteriore”, tuttora contenuto nel testo novellato dell’art. 1 della I. n. 142/01, ad evidenziarla ed a sottolinearne l’autonomia”
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In ragione delle considerazione che precedono, la pronuncia in commento censura anche l’orientamento opposto a quello appena richiamato, in base al quale non vi sarebbe la necessità di un atto formale di licenziamento in aggiunta alla delibera di esclusione, nemmeno qualora la condotta del socio lavoratore sia idonea a ledere, al contempo, entrambi i succitati rapporti intercorrenti con la Cooperativa, “Orientamento del quale rappresenta logico corollario quello, già richiamato, secondo il quale l’omessa impugnazione della delibera di esclusione preclude l’esame dell’impugnazione del licenziamento”.
Ed invero, dalla duplicità dei rapporti giuridici pendenti tra la Cooperativa ed il socio lavoratore, non può che discendere la diversità degli interessi in gioco e, quindi, dei relativi atti estintivi nonché delle connesse tutele rimediali.
Tutele che rimangono inevitabilmente autonome, in quanto volte ad ottenere risultati differenti: il ripristino della qualità di socio e la conseguente restituzione del posto di lavoro, nel caso di ricorso avverso l’esclusione; il risarcimento del danno, nel caso di ricorso avverso il licenziamento (la proposizione di entrambi i ricorsi configura un’ipotesi di connessione di cause).
E ciò vale anche qualora i due distinti atti traggano origine dalla medesima condotta del socio lavoratore.
A parere delle Sezioni Unite, quindi, il nodo cruciale della questione è stabilire “l’interazione degli effetti rispettivamente scaturenti da ciascun atto, al fine della ricostruzione dell’apparato rimediale che si delinea al cospetto della soppressione del bene della vita costituito dal rapporto di lavoro”.
Stante il dato letterale del summenzionato II comma dell’art.5 Legge n. 142/01, a seguito della definitiva esclusione dalla Cooperativa, non è mai ripristinabile il rapporto di lavoro: “È la tutela restitutoria ad essere preclusa dall’omessa impugnazione della delibera di esclusione […] L’omessa impugnazione della delibera ne garantisce per conseguenza l’efficacia, anche per il profilo estintivo del rapporto di lavoro”.
Tale risultato è, invero, ottenibile soltanto a seguito dell’annullamento della delibera di esclusione, con la conseguente ricostituzione del rapporto sociale e, quindi, dell’ulteriore rapporto di lavoro.
A tal proposito, le Sezioni Unite puntualizzano che trattasi di tutela differente da quella, di matrice giuslavoristica, prevista dall’art. 18 dello Statuto lavoratori (cosiddetta tutela reale), la quale è, viceversa,   applicabile nelle residuali ipotesi in cui il licenziamento, dichiarato illegittimo, non sia stato accompagnato dall’esclusione del socio.
Fermo restando quanto precede, la Suprema Corte riconosce, comunque, al socio escluso la possibilità di far valere l’illegittimità del licenziamento subìto, al solo fine di ottenere il relativo risarcimento.
In altri termini, nell’ipotesi della contestuale emissione dei due atti estintivi, lo scioglimento del rapporto di lavoro, quale conseguenza ex lege della definitiva esclusione, non preclude l’accertamento dell’illegittimità del recesso datoriale e del connesso diritto risarcitorio: “L’effetto estintivo, tuttavia, di per sé non esclude l’illegittimità del licenziamento, come del resto non esclude l’illegittimità della stessa delibera di esclusione che sia fondata sui  medesimi fatti; né elide l’interesse a far valere l’illegittimità del recesso.
Qualora s’impugni il solo licenziamento, difatti, non si prescinde dall’effetto estintivo del rapporto di lavoro prodotto dalla delibera di esclusione.
Anzi: proprio perché la delibera di esclusione, essendo efficace, produce anche l’effetto estintivo del rapporto di lavoro, destinato a restar fermo per mancanza d’impugnazione della fonte che l’ha determinato, viene a determinarsi un danno.
Ed al danno si può porre rimedio con la tutela risarcitoria”
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Nel caso di specie, il danno da risarcire si identifica nell’illegittimità del provvedimento di licenziamento e, quindi, della delibera di esclusione fondata sui medesimi fatti.
Tuttavia, pur partendo dal medesimo presupposto (illegittimità delle ragioni del licenziamento) la domanda risarcitoria rimane, comunque, autonoma da quella restitutoria, la quale, come già detto, è imprescindibilmente connessa all’impugnazione della delibera di esclusione.
In tal senso le Sezioni Unite affermano: “Pretendere che chi intenda chiedere soltanto la tutela risarcitoria derivante dal licenziamento illegittimo debba impugnare la delibera di esclusione equivarrebbe ad assoggettare la fruizione della prima ad un presupposto proprio della tutela restitutoria conseguente all’invalidazione dell’esclusione.
Laddove, in virtù dell’art. 24 Cost., spetta al titolare della situazione protetta scegliere a quale tutela far ricorso per poter ottenere ristoro del pregiudizio subito.
Gli effetti derivanti dalla delibera di esclusione non s’identificano quindi con quelli scaturenti dal licenziamento.
Anzi: sono proprio gli effetti della delibera di esclusione a dare consistenza agli effetti risarcitori derivanti dal licenziamento illegittimo.
Il che sostanzia l’autonomia delle rispettive tutele …”
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La complessa ricostruzione compiuta dalla Suprema Corte, attraverso la sentenza in commento, conduce al seguente principio di diritto, destinato a risolvere ogni dubbio in merito alle azioni esperibili nell’ipotesi in cui il licenziamento sia accompagnato dall’esclusione: “In tema di tutela del socio lavoratore di cooperativa, in caso d’impugnazione, da parte del socio, del recesso della cooperativa, la tutela risarcitoria non è inibita dall’omessa impugnazione della contestuale delibera di esclusione fondata sulle medesime ragioni, afferenti al rapporto di lavoro, mentre resta esclusa la tutela restitutoria”.
Quanto, infine, alla tipologia di tutela risarcitoria concretamente applicabile al caso di specie (licenziamento dichiarato illegittimo ma socio definitivamente escluso), occorre puntualizzare quanto segue.
Partendo dai menzionati presupposti dell’impossibilità della reintegra sul posto di lavoro, nonché dell’inapplicabilità, in ogni caso, dell’art. 18 dello Statuto lavoratori (pur nell’attuale formulazione in cui la tutela risarcitoria ha in buona parte sostituito quella reale, stante il perdurare del divieto di cui al menzionato art. 2 Legge n. 142/2001), si pone il problema se il diritto al risarcimento previsto dall’art. 8 Legge n. 604/1966 con riguardo ai datori di lavoro di minori dimensioni, sia applicabile anche al di sopra dei prescritti limiti dimensionali, oppure se, in quest’ultimo caso, debba trovare applicazione la tutela risarcitoria di diritto comune.
Inoltre, con riferimento ai rapporti di lavoro instaurati successivamente all’attuazione della Legge delega n. 183/2014 (cosiddetto Jobs Act), si ritiene operante la normativa prevista nei relativi decreti attuativi, con esclusione, evidentemente, delle disposizioni che contemplano la tutela restitutoria.