Diritto penale

LA CORTE DI CASSAZIONE CHIARISCE I PRESUPPOSTI DELLO “STATO DI BISOGNO” DEL SOCIO LAVORATORE AI FINI DELL’INTEGRAZIONE DEL REATO DI INTERMEDIAZIONE ILLECITA E SFRUTTAMENTO DEL LAVORO.

Con la Sentenza n. 24441 depositata il 22.06.2021, la Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi sulla rilevanza penale di condotte tese allo sfruttamento dei soci lavoratori di una Cooperativa sociale, si è soffermata sul concetto di “stato di bisogno”, quale condizione necessaria ai fini dell’integrazione del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro previsto dall’art. 603-bis del codice penale.
La fattispecie in esame, infatti, è punibile penalmente soltanto quando i soggetti passivi (nel caso di specie i soci lavoratori) si trovino in stato di bisogno e di tale loro condizione di oggettivo svantaggio approfitti la parte datoriale, sottoponendoli a condizioni di sfruttamento o reclutandoli al medesimo fine.
Ne consegue che l’assenza dello stato di bisogno in capo ai lavoratori sfruttati non consente l’integrazione del reato, rimanendo la condotta illecita del datore punibile mediante le ordinarie azioni previste nell’ambito del diritto del lavoro.
E’ evidente, quindi, l’importanza di definire in concreto i presupposti dello “stato di bisogno” e la Sentenza in esame è di grande utilità in tal senso.
La vicenda giudiziaria trae origine dalle indagini nell’ambito del reato di cui all’art. 603 bis c.p., comma I n. 2 e comma IV (ipotesi aggravata di sfruttamento diretto della manodopera anche mediante intermediazione illecita), svolte nei confronti di una Cooperativa sociale i cui soci erano inquadrati come volontari.
Le risultanze indiziarie avevano portato a concludere che le apparenti prestazioni volontarie dei soci dissimulassero invece rapporti di lavoro subordinato, peraltro in condizioni particolarmente svantaggiose per gli stessi soci, stante la misura dei rimborsi inferiore ai minimi contrattuali, il mancato riconoscimento di straordinari, riposi e ferie, nonché l’omissione dei contributi previdenziali.
Pertanto, erano stati emessi i decreti di sequestro preventivo finalizzati rispettivamente alla confisca diretta dei beni della Cooperativa ed a quella per equivalente nei confronti dei beni dell’Amministratore, da far valere nel caso di incapienza della Società.
Avverso le predette misure cautelari reali era stata proposta istanza innanzi al Tribunale del Riesame, il quale aveva confermato i due decreti di sequestro. La Cooperativa ed il suo Amministratore avevano, quindi, proposto ricorso per la cassazione del provvedimento di rigetto emesso dal Riesame.
Con i primi due motivi, i ricorrenti lamentavano la violazione degli artt. 1322 e 1362 del codice civile, in quanto la dichiarazione unilaterale con la quale ciascun socio si era impegnato a prestare gratuitamente il proprio apporto lavorativo, sarebbe stata senz’altro legittima sia perché espressione dell’autonomia privata che consente alle parti di regolamentare liberamente le condizioni del rapporto di lavoro, sia perché il suo chiaro tenore letterale non avrebbe potuto lasciare spazio ad una diversa interpretazione della volontà dei soci.
La Suprema Corte ha considerato inammissibili entrambe le succitate doglianze, non essendo volte in concreto a criticare la motivazione del provvedimento di rigetto impugnato, bensì a contestare la valutazione dei fatti operata dai Giudici di merito sulla base del quadro probatorio, dal quale erano emerse le condizioni le condizioni di sfruttamento dei soci.
Con il terzo ed ultimo motivo i ricorrenti hanno, invece, eccepito la violazione del succitato art. 603 bis c.p., sul presupposto che la fattispecie di reato ivi contemplata ricorre soltanto quando le condizioni di sfruttamento siano riservate a lavoratori in stato di bisogno, da identificarsi in una situazione di vulnerabilità tale da non consentire agli stessi lavoratori alcuna alternativa rispetto a quella di accettare passivamente gli abusi perpetrati da parte datoriale, sul modello dell’orientamento di matrice europea.
Sempre a detta dei ricorrenti, una situazione di tale gravità non poteva ritenersi presunta nel caso di specie semplicemente sulla base delle difficoltà economiche dei soci lavoratori o dell’assenza di altre offerte sul mercato.
La Suprema Corte, al fine di rigettare l’ultimo motivo, si è preliminarmente soffermata sul concetto di “stato di bisogno”, in quanto presupposto necessario all’integrazione del reato in questione.
Nello specifico, i Giudici di legittimità hanno ribadito che la tutela penale può essere riconosciuta solo allorquando lo sfruttamento (sia esso diretto ovvero perpetrato tramite intermediazione) venga esercitato nei confronti di lavoratori in stato di bisogno, quale condotta aggiuntiva rispetto alla fattispecie generale prevista dal diritto del lavoro.
Tuttavia, lo stesso Collegio ha tenuto a precisare (ed è proprio questa la portata innovativa della Sentenza) la differenza tra il concetto di “stato di bisogno” e quello di “posizione di vulnerabilità” di matrice europea, in contrapposizione alla tesi dei ricorrenti fondata, appunto, sulla presunta identità tra i due anzidetti parametri.
In particolare la Suprema Corte, nel prendere atto che la citata “posizione di vulnerabilità” trova fondamento nell’art. 1 della Decisione del Consiglio CEE n. 629 del 19 luglio 2002 sulla lotta alla tratta degli esseri umani, nella quale è definita come la “situazione in cui la persona non abbia altra scelta effettiva ed accettabile se non cedere all’abuso di cui è vittima”, ha rilevato che laddove il Legislatore italiano ha voluto fare riferimento ad una condizione di tal genere in capo alla vittima di reato, lo ha fatto espressamente, come ad esempio nella fattispecie di riduzione o mantenimento in schiavitù e servitù di cui all’art. 600 del codice penale.
Nella norma in esame, viceversa, la condotta tipica è testualmente rappresentata dal reclutare le vittime al fine di sottoporle a condizioni di lavoro particolarmente inique ovvero dall’impiegarle direttamente alle medesime condizioni, approfittando, appunto, del loro “stato di bisogno” (non della “posizione di vulnerabilità”).
Ne deriva, quindi, che ai fini dell’accertamento del reato in questione non è necessario indagare sulla sussistenza della posizione di vulnerabilità delle vittime come sopra intesa, essendo sufficiente rinvenire lo stato di bisogno dei lavoratori sfruttati, dal quale l’autore trae consapevolmente vantaggio.
Sul punto la Sentenza aderisce al consolidato orientamento secondo il quale lo stato di bisogno “va identificato non con uno stato di necessità tale da annientare in modo assoluto qualunque libertà di scelta, ma come un impellente assillo e, cioè una situazione di grave difficoltà, anche temporanea, in grado di limitare la volontà della vittima, inducendola ad accettare condizioni particolarmente svantaggiose”.
Alla luce delle predette argomentazioni, la Suprema Corte ha respinto anche il terzo motivo di ricorso, ritenendo legittimo il Provvedimento di conferma del sequestro da parte del Tribunale del Riesame, che aveva ravvisato l’esistenza dello stato di bisogno dei soci lavoratori, in base alle condizioni di difficoltà economica, all’età avanzata, nonché al basso livello di specializzazione professionale, come accertate nel corso delle indagini.
La Sentenza ha, quindi, ritenuto che le predette condizioni personali dei lavoratori sfruttati dalla Cooperativa rientrassero senz’altro nell’alveo della nozione di stato di bisogno, in quanto idonee ad incidere sulla “libertà di autodeterminazione a contrarre”.
Le conclusioni a cui è giunta la Suprema Corte sono indubbiamente favorevoli a tutti quei soci lavoratori economicamente fragili, che proprio in ragione della loro posizione di svantaggio vengano reclutati dalle Cooperative per essere poi sottoposti a sfruttamento (cd. “caporalato”) ovvero siano dalle stesse direttamente impiegati alle medesime condizioni di lavoro.
Con la Sentenza in esame, infatti, la Corte di Cassazione, interpretando in maniera estensiva la nozione di “stato di bisogno”, espande il novero delle fattispecie rilevanti ai fini del reato contemplato nell’art. 603 bis c.p. e, pertanto, consente alle vittime maggiori possibilità di accedere alla tutela penale, piuttosto che limitarsi ai rimedi generali di natura civilistica previsti in materia di sfruttamento del lavoro.