Brevi osservazioni alla Sentenza del Tribunale di Roma, III sez. civile, n. 2587/2016.

La sentenza in esame affronta la problematica dell’autonomia dei due rapporti intercorrenti tra la Cooperativa edilizia e i soci: il rapporto strettamente sociale e il rapporto mutualistico; il primo avente ad oggetto il vincolo associativo, regolato dalle norme di diritto societario e dalle clausole dello Statuto sociale; il secondo caratterizzato dal sinallagma contrattuale, fondato sulle reciproche prestazioni inerenti all’assegnazione dell’alloggio prenotato dal socio e dal corrispettivo da quest’ultimo versato alla Cooperativa.
La sentenza conferma il consolidato principio, secondo cui l’estinzione del rapporto mutualistico non comporta l’automatica estinzione del rapporto sociale, che , anzi, deve restare vigente sino al raggiungimento dello scopo sociale, esteso a tutti i soci.
Quanto precede deriva anche dal principio di parità di trattamento tra i soci, in forza del quale non è consentito che alcuni di loro non partecipino alle eventuali sopravvenienze passive inerenti ai costi di costruzione dell’alloggio e/o alle spese generali occorrenti al sodalizio fino alla sua definitiva estinzione, possibile solamente a seguito del raggiungimento dello scopo sociale.
In ragione delle argomentazioni che precedono, il Giudice ha ritenuto infondata l’opposizione alle delibere del Consiglio di Amministrazione della Cooperativa, che, tra l’altro, avevano revocato le precedenti deliberazioni con cui l’Organo consiliare aveva preso atto della perdita della qualità di soci in forza del dettato dello Statuto che accomunava le sorti del rapporto mutualistico a quelle del rapporto sociale.
Il predetto Giudice ha ritenuto implicitamente che la clausola statutaria, non avendo forza derogativa della normativa sulla parità di trattamento dei soci, dovesse essere interpretata nel senso che, solamente con il raggiungimento dello scopo sociale esteso a tutti i medesimi soci, si sarebbe determinata l’estinzione del loro rapporto con la Cooperativa.
A questo punto, l’analisi critica della sentenza in esame merita qualche attenzione sulla effettiva legittimità della revoca delle delibere già assunte dall’Organo consiliare, in particolare quelle aventi ad oggetto la vigenza del rapporto sociale dopo l’assegnazione degli alloggi.
Occorre preliminarmente osservare che, in via generale, il Consiglio di Amministrazione delle Cooperative ha il potere di revocare i propri deliberati, fatta eccezione per i casi in cui essi deliberati abbiano comportato l’acquisizione di diritti da parte di terzi ovvero degli stessi soci (Cass., Sez. I, n. 22762 del 12.12.2012; Cass., Sez. I, n. 420 del 24.01.1990).
Alla luce di quanto precede, dunque, appare necessario verificare se le delibere revocate abbiano comportato l’acquisizione di diritti da parte dei soci destinatari in ordine alla estinzione del loro rapporto sociale.
Da quanto è dato leggere nella motivazione della sentenza in esame, sembra che non vi sia stata una domanda di recesso da parte dei soci e, conseguentemente, che non vi sia stata neppure un delibera di accoglimento della predetta domanda.
A tal proposito, è bene precisare che in presenza di recesso accolto dal Consiglio di amministrazione  si verterebbe nell’ipotesi di accordo con valore negoziale, intercorso tra l’Organo consiliare e il socio receduto.
In tale ultima ipotesi, non potrebbe ritenersi legittima la deliberazione di revoca assunta dal Consiglio, stante la vincolatività negoziale del precedente deliberato (Cass., Sez. I, n. 420 del 24.01.1990).
Nel caso in esame, la fattispecie sembra del tutto diversa da quella del recesso con valore negoziale, posto che i deliberati revocati si fondano sulla “presa d’atto” del Consiglio in ordine alla perdita della qualità di socio conseguente all’assegnazione dell’alloggio, in conformità a quanto statuito nello Statuto.
In ragione di quanto precede, dunque, si verterebbe nell’ipotesi di una correzione interpretativa da parte del Consiglio di Amministrazione attuata con la revoca dei precedenti deliberati, ai quali si deve ritenere rigorosamente estraneo qualunque accordo o patto con gli ex soci (altrimenti sarebbe vincolante il negozio giuridico del recesso perfezionatosi con l’accoglimento della relativa domanda).
In assenza di recesso con valore negoziale, quindi, i soci non avevano acquisito alcun diritto, stante la normativa sulla parità di trattamento, richiamata nella motivazione della sentenza, e ,pertanto, i deliberati di revoca potevano essere  legittimamente revocati dal CdA.
Va, infine, osservato che la predetta normativa sulla parità di trattamento dei soci delle Cooperative potrebbe, comunque, rilevare anche nel caso di recesso con valore negoziale, però nella sola ipotesi in cui, successivamente all’accoglimento della domanda di recesso, sopraggiungano passività inerenti al costo di costruzione degli alloggi assegnati, non conosciuti, né conoscibili al momento dell’assunzione del deliberato da parte del Consiglio di amministrazione.
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Cooperative di produzione e lavoro: il rapporto tra l’esclusione ed il licenziamento.

In materia di cooperative di produzione e lavoro, l’orientamento della Suprema Corte di Cassazione sembra essersi consolidato nel ritenere il vincolo sociale prevalente rispetto al rapporto lavorativo, con la conseguenza che il venir meno del primo comporta necessariamente l’automatica cessazione del secondo, sulla base di quanto dispone l’art. 5, comma 2, Legge n. 142/2001.
Dal principio appena richiamato deriva che il socio lavoratore subordinato, di cui sia stata deliberata l’esclusione, che lamenti eventuali vizi procedurali o di merito, non potrà impugnare autonomamente il licenziamento, bensì dovrà opporsi alla delibera di esclusione entro sessanta giorni dal ricevimento della relativa comunicazione, come previsto dall’art. 2533 c.c., pena la definitività dello scioglimento del rapporto sociale e, pertanto, la cessazione ex lege del rapporto di lavoro intercorso con la Cooperativa.
Nella pagina dedicata al diritto del lavoro l’approfondimento e le citazioni giurisprudenziali.